Il seggiolino eiettabile. Essere giovani, soffrire di un disturbo psichico e studiare nell’Italia del XXI secolo.

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di Costanza Savaia

Molto spesso mi sento chiedere perché alla mia età non sia ancora laureata.

“Ma come, con il cervello che hai, non riesci a dare un esame?”

“Ma tu di esami potresti darne ventiquattro in un anno!”

“Tu te la mangeresti l’università, sei così intelligente! Com’è possibile che tu non ci riesca??!”

Queste domande con il tempo si fanno sempre più estenuanti. Ho deciso quindi di raccontare qui la mia storia e farla leggere a chiunque ponga il fatidico quesito, così da evitare fatica a me e agli altri e non dover rivivere altre mille volte il peso di dover spiegare, spiegare e ancora spiegare.

Nel 2013, verso la fine del primo anno scolastico del liceo, subii un evento traumatico molto complesso, impossibile da liquidare in due righe, per cui non ne parlerò qui. Una delle conseguenze immediate del trauma fu che cominciai a soffrire di fobia scolastica. L’anno successivo la fobia si acuì molto, al punto che mi trovai di fronte alla concreta eventualità di essere bocciata perché non scrutinabile. In buona sostanza, avevo fatto troppe assenze. Potevo evitare la bocciatura dando un esame di idoneità, cioè un’ultra-verifica su tutto il programma, di tutto l’anno, per ogni materia. Ero al liceo classico, c’erano greco, latino e tante altre cose. Accettai l’esame di idoneità. Studiai da sola il programma di tutte le materie, diedi l’esame di idoneità, lo superai.

La fobia scolastica peggiorava. Riprovai altre tre volte a tornare a scuola: in terza superiore, e due volte in quarta. Due volte in quarta perché decisi di cambiare classe e ripetere la quarta in un’altra sezione. Fu una decisione mia, non ero stata bocciata all’esame di idoneità. Nel settembre 2015 avevo dato l’idoneità per frequentare la quarta, nel 2016 mi fermai e aspettai settembre per presentarmi in una nuova classe. Speravo che cambiare sezione potesse funzionare contro la fobia scolastica. Non funzionò.

Nel frattempo avevo sviluppato un’acuta sindrome di ansia e depressione. Andavo in psicoterapia, assumevo molti psicofarmaci, li cambiavo spesso perché molti mi davano effetti collaterali e basta, senza effetti apprezzabili sulla mia salute mentale. Il grande vincitore era lo Xanax, mentre con gli antidepressivi ho avuto solo storie finite male, nel frattempo provavo con antipsicotici, neurolettici, stabilizzatori dell’umore, non me ne sono fatto scappare uno.

Per due anni, fra il 2015 e il 2017, frequentai assiduamente il Centro diurno per adolescenti con disagio psichico di Villa Frascaroli, a Pietra Ligure, uno dei pochissimi centri pubblici italiani dedicati ai giovani sotto i 24 anni. Già da quello che ho raccontato finora potete intuire che se ora ho il diploma è perché sono stata due volte fortunata. La prima fortuna è che mi sia toccato in sorte un cervello che mi consente di studiare da sola, se non lo avessi avuto non sarei andata oltre la prima superiore. Non è nella natura umana studiare da soli. Ne soffrii molto. A volte la sofferenza era così intensa che, soprattutto quando affrontavo le materie più difficili, mi inducevo dolore fisico per costringermi a rimanere sul posto di studio. Per esempio, mi laceravo la pelle di una mano ogni volta che avevo la tentazione di abbandonare una versione di latino, oppure mi colpivo le ginocchia con una grossa pietra granulosa, fino a farle diventare viola di ematomi, finché non raggiungevo il traguardo di 70 pagine al giorno. Più di ogni altra cosa, mi imponevo di restare chiusa in casa, come espiando una pena. Non era autolesionismo, era una coercizione inflitta razionalmente, come quando si dà una frustata all’asino per farlo procedere, e rispetto all’autolesionismo propriamente detto era decisamente meno spettacolare. Alla lunga, però, la sofferenza fisica mi entrò dentro, si interiorizzò, si fece una cosa sola con il dolore psichico, e cominciai a sentire un irrisolvibile senso di logoramento che mi toglieva le forze. La coercizione fisica era una risposta a una forma di stress che non faceva che creare altro stress, aggravando le mie condizioni, in modo lento ma profondo. A oggi sento una stanchezza persistente, ho perso il piacere di tante cose, faccio fatica a muovermi dal letto. Ma la coercizione fisica non è l’unico motivo per cui presento questi sintomi, la mia condizione è molto più complessa. Ora proseguo.

Dicevo delle due fortune. La seconda fortuna è di abitare a Savona, a 30 chilometri da uno dei pochissimi centri italiani per la terapia psicologica degli adolescenti in forza al Servizio Sanitario Nazionale. All’epoca, quando fu aperto, mi pareva di aver letto su un giornale che addirittura ce ne fossero solo tre in tutta Italia, ma ho paura di dire una stupidaggine, però resta che sono drammaticamente pochi ancora oggi. Nella gran parte d’Italia, se sei adolescente e soffri psichicamente, finisci mischiato agli adulti, nei centri diurni come nei ricoveri, ed è strutturalmente impossibile che ti venga dedicata la diversa attenzione che la tua situazione richiede.

Le mie due fortune corrispondono ad altrettante sconfitte dello Stato. Il guaio è che l’elenco delle fortune non è finito, quindi neanche quello delle sconfitte dello Stato.

Nel 2017 incappammo in un pasticcio. Che in realtà non era un pasticcio, non avrebbe dovuto esserlo in un Paese in cui la salute mentale di una persona sia considerata degna di essere curata.

Era un guaio agli occhi di persone molto importanti – alcuni insegnanti – e lo diventò per me. La parte orale dell’esame di idoneità per accedere alla quinta superiore cadde infatti in un periodo di sofferenza psichica estremamente intensa. Mi presentai all’esame, è il caso di dirlo, fattissima. Non di droghe. Di farmaci regolarmente prescritti. Le mie condizioni erano tali che senza quei farmaci non sarei riuscita neanche ad alzarmi dal letto. Talofen e Xanax in particolare erano i campioni della mattinata. Soprattutto lo Xanax, e si vedeva molto.

Superai l’esame con enorme fatica. La media della sufficienza era risicata. Ero sostanzialmente priva di coscienza. Come dico spesso, forse riuscii a dire quel minimo indispensabile che dovevo dire perché in me le informazioni non sono accumulate dalla memoria ma da una particella di universo che accoglie le nozioni ed è immune ai farmaci.

A un certo punto scoppiai a piangere nel mezzo dell’aula. Una professoressa di educazione fisica mi venne in soccorso. L’interrogazione successiva era quella di greco e latino. Uno dei due professori si rifiutò di interrogarmi, definendomi con rabbia e disprezzo “inqualificabile”. Il suo rifiuto comportava automaticamente l’annullamento dell’esame, per superarlo dovevo essere valutata per tutte le materie. L’altro professore allora, di sua sponte, mi interrogò sia di greco, sia di latino, e salvò il mio esame e forse anche la mia vita.

Il disprezzo del professore disposto a mandare all’aria tutto l’esame mi fece molto soffrire. Ma fu poco rispetto a quello che accadde alcuni giorni dopo. Avevo infatti deciso che l’esame di idoneità successivo, propedeutico alla maturità (no, non si va direttamente alla maturità, a maggio bisogna dare il solito esame di idoneità e poi fra giugno e luglio la maturità, insomma una doppia maturità a stretto giro), lo avrei affrontato da esterna, senza iscrivermi di nuovo a scuola. Un professore che mi aveva dato alcune lezioni nei mesi precedenti per darmi una spinta su alcune materie particolarmente difficili, dopo aver visto il risultato, si vergognò di me. Mi disse che avevo dato una prova indegna della mia intelligenza, che avevo fatto un disastro, che dovevo vergognarmi, con le capacità che avevo, di aver dato così poco. Disse ai suoi colleghi che avevo avuto “la decenza”, “per rispetto”, di dare l’ultimo anno da esterna, e di non farmi più vedere al liceo. E non contento di aver diffuso questo proclamo presso gli altri docenti dell’istituto, me lo fece sapere dalla sua stessa voce, al telefono, con assoluta tranquillità, quasi con fierezza, orgoglioso della propria risoluzione.

Questa fu la bomba vera. Sono cresciuta in una famiglia profondamente innamorata della Costituzione. Sempre, fin da quando andavo all’asilo, mi venivano ripetuti sia da mia madre, sia da mio padre, i miei diritti costituzionali, perché non li dimenticassi mai e li interiorizzassi. Constatare che la mia sofferenza non passava completamente inosservata, veniva vista eccome, e veniva vista non come sofferenza ma come indecenza, una cosa indecorosa, al punto da ritenere giusto e rispettoso che mi venisse negato il diritto costituzionale a frequentare un istituto statale, fu così terribile per me da provocarmi una somatizzazione devastante.

Poche ore dopo la telefonata, il nervo trigemino si incendiò, causandomi una nevralgia catastrofica. Presi antinfiammatori e analgesici in dosaggi che avrebbero steso un cavallo da tiro (solo di ibuprofene prendevo 4800 mg al giorno). Allo stesso tempo, sviluppai una gastrite terribile, come se lo stomaco mi si fosse accartocciato come un foglio di alluminio, con un dolore lancinante, come se mi fosse stato tagliato in due con una spada, e non riuscivo più a mangiare per il dolore, avevo una nausea terribile, mi veniva da vomitare in continuazione. Mi venne un dolore terrificante al braccio destro, quello che aveva sorretto il cellulare mentre il professore mi diceva con orgoglio di sé stesso che la mia sofferenza psichica mi rendeva indecente, irrispettosa verso gli altri e fruitrice morosa e illegittima dell’istruzione pubblica.

La nevralgia del trigemino durò una settimana. Sette giorni di un dolore che, per capirci, un mio vecchio medico definiva colloquialmente “sedia elettrica”, uno dei dolori più forti che il corpo umano sia in grado di sentire.

La gastrite durò per sei mesi. Cominciò il giorno della telefonata con il professore, in ottobre, e finì a marzo, quando finalmente potei temporaneamente pensionare il lansoprazolo, il Maalox, il Gaviscon e il domperidone.

Il dolore al braccio destro non è mai passato, ho sempre il tutore a portata di mano perché potrebbe scatenarsi in qualsiasi momento. Sono trascorsi più di cinque anni e a questi punti dubito che abbia intenzione di traslocare.

Nel frattempo, dopo che fra il 2015 e il 2017 avevamo indagato fin troppe piste per capire di che diamine di malattia mentale soffrissi, a uno psichiatra illuminato si accese una lampadina. Mi somministrò un test del potenziale cognitivo e un test per lo spettro autistico. Risultai positiva all’Alto Potenziale Cognitivo (APC, una condizione di neurodivergenza con forti conseguenze sulla vita di chi ne è interessato) e venne fuori che sono autistica. Non proprio due pesi piuma in termini diagnostici. Era il dicembre 2017. La mia vita cambiò completamente, fu una rivoluzione, capii che tantissime cose che sentivo come sbagliate non lo erano, erano semplicemente correlate a una condizione di diversità neurobiologica.

C’erano voluti 19 anni e mezzo, traumi multipli, fobia scolastica e sindrome acuta di ansia e depressione per capire che sono autistica e APC.

Dopo sette anni di tribolazioni (la malattia sviluppata in seguito alla telefonata mi rese troppo difficile studiare da sola, mi concessi alcuni mesi di tregua e ripresi a studiare nell’autunno 2018), finalmente nel 2019 riuscii a dare la maturità. La diedi in un altro liceo classico, quello vecchio non volevo più vederlo neanche in foto. La diedi da esterna, d’altronde l’istruzione pubblica non la meritavo, ero indecente, ero irrispettosa, eccetera, eccetera…

Presi 84 su 100 perché a chi si presenta come privatista per legge non è consentito dare di più. La riforma della maturità del governo Conte I, quella diventata famosa per le buste estratte a sorte, prevedeva che i professori potessero dare 5 punti in più a chi ritenevano particolarmente meritevole. Me li diedero tutti e 5. Così uscii con 89 su 100, 5 punti sopra la legge.

Era tutto tremendamente tragicomico. Quel professore aveva sentenziato che non meritavo l’istruzione pubblica, eppure presentandomi da esterna avevo ottenuto più di quanto avrei preso stando dentro. La mancanza dei crediti, determinata dalle assenze e dal non aver effettuato alcun tipo di alternanza scuola-lavoro, avrebbe pesato sul mio curriculum scolastico al punto che, indipendentemente dalla qualità della mia prova, se avessi dato l’esame da interna avrei preso poco più che la sufficienza. Mi ero presentata da fuori, e i professori del nuovo liceo classico mi avevano ritenuta così meritevole da darmi un voto il più possibile superiore a quello consentito dalla vecchia legge. Mi fecero pure i complimenti fuori dalla scuola. Un cortocircuito straordinario, in cui la ragione profonda dell’antifascismo, della democrazia e della Costituzione usciva integralmente mortificata, calpestata, triturata.

Quei sette anni erano stati un tale inferno che quando ritirai il diploma mi abbandonai alle braccia di mia mamma e scoppiai a piangere, mentre nel mio cervello una finestra si chiudeva con presa d’acciaio sull’atto stesso di studiare. Sviluppai una sindrome conosciuta come “hyperarousal da disturbo da stress post-traumatico”. Quando una persona subisce un trauma, è possibile che in circostanze che ricordano l’evento traumatico si verifichi uno shock adrenalinico, con una tale impennata di stress, aggressività e dolore da rendere pressoché impossibile svolgere una qualsiasi attività senza farsi del male e fare del male. Inoltre lo stress che si sprigiona è citotossico, se prolungato danneggia molto severamente l’organismo, con conseguenze che sul lunghissimo periodo possono contribuire al manifestarsi di complicazioni letali (la letteratura scientifica su come uno stress molto intenso e protratto negli anni possa contribuire insieme ad altri eventuali fattori a un logoramento con esito letale è sterminata, non starò qui a dilungarmi al riguardo, sta di fatto che meno vado incontro all’hyperarousal e meglio è).

È una reazione atavica, senza ritorno, che il corpo impone come uscita di emergenza, come il seggiolino eiettabile sui caccia-bombardieri, al fine di evitare un pericolo mortale, del tipo: se non te lo metti in testa con le buone che se ti siedi sui binari finisci a brandelli, te lo faccio capire io con le cattive. Il seggiolino eiettabile non è piacevole, ma è meglio che tirare le cuoia in una palla di fuoco. La notizia è che il mio corpo sia arrivato a considerare i libri di testo come minacce non meno concrete di un treno in corsa o di una palla di fuoco.

Ogni volta che prendo in mano un libro da leggere non succede niente di particolare, se non che me lo leggo volentieri. Se prendo in mano un libro da “studiare”, molte volte accade che si accenda l’hyperarousal da PTSD. Lo stress è talmente forte che vengo assalita dalla frenesia, non riesco più a stare ferma, devo scappare, ma non è una fuga come quella nera dell’attacco di panico, è una fuga violenta, attiva, l’adrenalina mi fa impazzire di rabbia, non mi fa più sentire il freddo, mi gonfia i muscoli per schiacciare chiunque mi ostacoli la via per mettermi in salvo, ripartono tutti i sintomi della gastrite, mi torna il dolore al braccio destro. Per fortuna non torna la nevralgia del trigemino, d’altronde ho fatto rimuovere le principali terminazioni nervose nei denti sul lato destro della bocca per renderne meno probabile il ritorno, al solo pensiero che mi possa tornare QUEL dolore mi sale un malessere profondo, una paura così porca che, quella sì, sfuma nel panico, è come se mi trasformassi in un animale fatto di puro istinto, e quell’istinto è in gran parte paura. Peraltro, quando il dentista aprì i denti per devitalizzarli, scoprì che in realtà erano già morti. La nevralgia del trigemino aveva provocato un trauma così forte da uccidere del tutto le terminazioni nervose, che ora giacevano in stato di necrosi asettica. La morte cellulare non aveva prodotto putrefazione, non essendoci né ossigeno né batteri che potessero avviare il processo di decomposizione. Mi fu detto che, rispetto a quanto pensavo, potesse essere successo il contrario, cioè che lo shock della telefonata avesse prodotto come effetto primario la morte dei denti, e che il trigemino si fosse infiammato a causa dell’anomalia.

Le crisi di hyperarousal da PTSD, al momento, riesco a curarle solo per via farmacologica. Non è un problema che si possa risolvere con un esercizio di concentrazione. I farmaci hanno un tasso di tossicità non trascurabile, più ne prendo e più il mio organismo ne risente. Studiare significa aumentare considerevolmente le dosi dei farmaci. Questo rallenta enormemente il processo di studio. Peraltro, le crisi di hyperarousal si combinano non di rado con il meltdown, che invece è una manifestazione di reattività aggressiva tipica dell’autismo e si verifica soprattutto in situazioni di sovraccarico sensoriale, emotivo, ecc., a sua volta estremamente stressante e fonte di estrema sofferenza per chi lo vive in prima persona ma anche per chi convive con il soggetto, perché il meltdown può essere particolarmente difficile da gestire, soprattutto se si manifesta come esplosione violenta di rabbia. Nel mio caso il meltdown si manifesta prevalentemente come scoppio di ira che mi acceca, comincio a sfuriare, a straparlare, non riesco a controllarmi ma nel frattempo sono perfettamente lucida, mi rendo conto dei danni che sto facendo ma non riesco a fare nulla per fermarmi, l’impennata di reattività è troppo forte per essere controllata, e non per niente da anni gli specialisti lavorano a forme di strategia e educazione alla gestione di sé stessi e delle proprie emozioni per far rientrare il meltdown. Se fosse un banale eccesso di rabbia (uno sciupun de futta, diremmo qui in Liguria!) basterebbe trattenerlo, perché come dice il mio psichiatra, “Gli impulsi non si controllano, i comportamenti sì”. Ma il meltdown non è un semplice impulso. Per rendere l’idea, di solito dico che è come essere operati senza anestesia ma con danni collaterali che colpiscono gli altri, sei sveglio, patisci un dolore immenso, lo provochi anche a chi è intorno a te. Se non gestito, se frequente in una persona non diagnosticata, in una famiglia con cultura sottozero in quanto a neurodivergenza, in un ambiente sociale e lavorativo in cui non si sa niente di autismo e neurodivergenza e non si sa di avere a che fare con una persona autistica, ancora peggio se la persona autistica a sua volta non sa di essere autistica, il meltdown, nelle sue forme più intense, può essere una seria fonte di distruzione relazionale, fosse anche solo per le spirali di sensi di colpa che genera. Per tanti anni ho pensato di essere un mostro, una creatura deviata incapace di controllare un demone implacabile che a volte prende il mio posto pur lasciandomi lucidamente cosciente… e invece sono solo autistica, e invece era solo un meltdown, e invece era solo una reazione da sovraccarico tipica negli autistici e non nei neurotipici, e invece si può tranquillamente gestire ma finché non sai di essere autistico i mezzi per gestirlo non ti vengono forniti. Il 2017 fu la fine di una vita passata a pensare che da grande sarei diventata una strega, indipendentemente da ciò che avrei fatto di me stessa.

Mi è capitato molte volte di avere hyperarousal e meltdown contemporaneamente. Sul momento non sapevo se sarei arrivata viva al giorno dopo. “You might feel like you’re dying but you’re not”, direbbe qualcuno, e ormai lo so, razionalmente, che non sto morendo, o almeno c’è un’alta probabilità che non muoia proprio quel giorno lì, il problema è il “mentre”, un’esperienza devastante che porta a un evitamento sistematico di un numero sempre maggiore di trigger, fino alla debilitazione, tanto è terribile e pervasiva la sofferenza psicofisica indotta dall’evento e tanto è forte la volontà che non si ripeta.

Tornando al mio percorso di studio: era già lento di suo, perché sono molto indecisa su chi sono, su quale debba essere la mia strada. Prima ho provato Lingue straniere. Poi Conservazione dei beni culturali. Ora sono dentro Filosofia, e questa volta credo di aver beccato quella giusta, ma resta che studiare mi è doloroso. E intendo studiare su un libro di testo, perché studiare per conto mio le cose che mi interessano al di fuori dell’università mi riesce benissimo. È l’atto stesso di studiare sapendo che qualcuno mi verificherà a distruggermi. Se nessuno mi deve verificare, se sono io a decidere del mio studio, invece non mi succede niente. Il solo pensiero degli occhi dei professori scalda l’innesco dei sintomi dell’hyperarousal.

L’hyperarousal da PTSD è un’esperienza talmente orrenda che la evito sistematicamente. L’obiettivo della sindrome, peraltro, è proprio quello di non essere scatenata, è un meccanismo ancestrale per cementare per via necessaria l’evitamento delle minacce mortali. L’hyperarousal è dolore, sia psichico sia fisico, e sono medicine, che fanno male al mio corpo e costano soldi, non pochi.

In fondo, siamo tutti diversi. Ognuno ha il suo percorso unico e irripetibile. Forse, nel mio caso, è giusto così, che il percorso universitario sia molto lento e approfondito. Per fortuna (incredibile che debba arrivare a dirlo, ma in questo caso sì, è decisamente una fortuna) sono disabile all’84% e non pago tasse universitarie, solo una rata annuale fissa. Significa che posso andare fuori corso e dal punto di vista economico non cambia nulla. Il che è di estrema importanza, perché venendo da una famiglia dal reddito medio-basso, significa banalmente che POSSO laurearmi in caso di difficoltà, altrimenti la laurea mi sarebbe preclusa indipendentemente dal mio stato attuale di salute. Senza disabilità, basta una difficoltà, un ritardo per cause inevitabili, e la laurea è fuori portata a causa dell’aumento delle tasse per i fuori corso. La disabilità è per me una terza fortuna, ed è la terza sconfitta dello Stato, nettissima, riscontrata nella mia storia. Un altro dettaglio tragicomico è che una parte della mia percentuale di disabilità, decisiva per ottenere l’esenzione dalle tasse, proviene proprio dai sintomi e dal complesso dei danni psicofisici, alcuni permanenti, causati dalla sofferenza degli anni del liceo e dall’hyperarousal da PTSD.

Siamo tutti diversi anche nella sensibilità. La telefonata del professore, forse, a qualcun altro sarebbe scivolata addosso. A me ha fatto un effetto che ne sarei uscita meglio se fossi stata pestata da un cinghiale, fosse anche solo per la chiarezza della diagnosi e la certezza di doverla curare in un modo e non in un altro. Il disturbo da stress post-traumatico è imprevedibile, si manifesta in alcune persone e non in altre, a volte l’evento che traumatizza una persona lascia indifferente un’altra che le stava accanto, ed è altrettanto possibile il contrario. Ogni caso è unico, e il diritto a essere curati è uguale per tutti.

Sono nata in una famiglia di ceto sociale umile, con reddito, come dicevo, medio-basso, e ho incontrato lungo il mio cammino una quantità di difficoltà che un reddito anche solo un poco più alto non avrebbe rimosso, ma sicuramente molto mitigato. Ma il nostro reddito semplicemente non poteva alzarsi, e anzi ha continuato ad abbassarsi negli anni. Il Servizio Sanitario Nazionale mi ha garantito le cure indispensabili, ma tutt’ora non posso permettermi di pagare per un numero importante di esperienze, incontri, a volte anche solo oggetti che potrebbero essermi di grande aiuto. E questo con le mie tre fortune. Se non avessi avuto le tre fortune di essere nata con un cervello che mi consente di studiare da sola, di vivere nei pressi di uno dei pochissimi centri pubblici italiani per la cura della sofferenza psichica negli adolescenti e di avere una percentuale di disabilità tale da avere diritto all’esenzione dalle tasse universitarie, sarei completamente fuori dai giochi da molto tempo.

E qui arriva la batosta definitiva, cioè che le mie tre fortune non esistono per la grandissima parte di chi vive condizioni da analoghe a molto peggiori delle mie. Pare che viaggiamo su numeri come 70.000 adolescenti in più ogni anno. Questa è la quarta sconfitta dello Stato, la più terribile, e qui non c’è fortuna per nessuno.

EDIT 22/03/2023: il mio percorso universitario presso l’Università di Genova è concluso. “Non rientravo nei servizi”. Non ho voglia di approfondire qui, c’entrava, manco a dirlo, la pianificazione degli esami, sulla quale ero in ritardo. Quando ho aperto la mail mi sono sentita come se una spada arroventata mi bruciasse il corpo dall’interno, accendendosi a partire dalla mia colonna vertebrale, e insieme ho provato un senso di soffocamento, come se avessi respirato una boccata di monossido di carbonio. La mail mi è arrivata lo stesso giorno in cui è stata battuta la notizia del suicidio della studente campana Diana Biondi, 27 anni, ennesima vittima di una istituzione le cui mani sono sporche, ormai forse del tutto imbevute, del sangue dei giovani studenti italiani. La coincidenza della data, la consapevolezza della sempre maggiore frequenza dei suicidi fra gli studenti, mi ha indotta a pensare come prima cosa, d’istinto, senza intenzione, “questa mail avrebbe potuto uccidere qualcuno”. Nel frattempo ricevo notizie di una eccellente studente di un’altra facoltà (mi è stato chiesto di non fare nomi) che l’ateneo genovese vuole fermamente espellere a causa delle sue difficoltà correlate a un disturbo psichico e di una studente genovese di un’altra facoltà che non vuole più frequentare per non dover più assistere regolarmente agli abituali abusi psicologici dei professori sugli studenti, e che non riesce a dare esami perché ha troppa paura delle sfuriate e delle stilettate psicologiche dei docenti (io stessa, da non frequentante, l’unica volta che ho avuto contatto con l’ambiente interno ho avuto la “delizia” di vedere un responsabile di un test d’ingresso intento a massacrare una studente che aveva sbagliato l’iscrizione al dipartimento, urlandole che “le persone come lei sono un problema, lei è una parassita, fate perdere tempo e soldi alle università”, mentre la ragazza piangeva straziata e implorava ripetutamente di essere perdonata; la parola “parassita” mi colpì perché è lo stesso termine che viene usato da molte persone contro i migranti e contro i percettori del reddito di cittadinanza, in buona sostanza “individui prescindibili e sgraditi” alla società di cui non si vede l’ora di sbarazzarsi, con le buone o con le cattive; sentii un dolore profondo e tutt’ora quella parola la sento rivolta anche a me). Apprendo anche da una ricerca di Skuola.net che uno studente italiano su tre mente ai genitori riguardo al procedere della propria carriera universitaria principalmente a causa della paura di deludere le aspettative, mentre il tasso di suicidi continua ad aumentare, come denunciato il 14 febbraio 2023 nel fondamentale intervento della Presidente del Consiglio degli studenti di Padova, Emma Ruzzon trasformandosi rapidamente da rari episodi isolati di sofferenza psichica inascoltata (casi pur gravissimi di disattenzione verso il malessere dei giovani, ma relativamente isolati) a fenomeno sociale di massa. Le opzioni sono due: o gli studenti italiani sono fatti di niente (ne dubito), o è in corso un abuso di Stato di proporzioni sistemiche. Propendo per la seconda, anche per esperienza personale. Non sono più una studente universitaria, l’università non mi vuole, così come a suo tempo quel professore mi disse che non dovevo più farmi vedere al liceo (costante di interpretazione della mia “indecente” presenza: le mie difficoltà psicofisiche), così come in generale l’istituzione scolastica e universitaria dà segno di considerare gli studenti come un peso, un fardello burocratico di cui si libera volentieri. Ma non me ne sto con le mani in mano. Ho un progetto in cantiere, ma non posso dire ancora molto al riguardo. Stay tuned.

EDIT 08/07/23: l’evento è rientrato e la mia situazione universitaria è di nuovo regolare. Ma restano lo spaesamento, il senso di abbandono e solitudine. Il progetto di cui sopra non retrocede. Stay tuned.

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